Guardando The Madness ho pensato a questo: è come se Hitchcock avesse deciso di fare un thriller tipo “uomo sbagliato al momento sbagliato”, ma invece di Jimmy Stewart ci fosse Shaft. Colman Domingo è, senza dubbio, il protagonista più cool dell’anno in questa serie in otto episodi di Netflix. Ma, ahimè, dietro la sua imponente presenza, la storia vacilla più di un turista ubriaco in piazza San Marco. Ecco cosa ne penso di questa nuova serie: tenetevi forte, perché non risparmierò colpi!
Colman Domingo: un trionfo di stile
Colman Domingo è, senza esagerare, il motivo principale per guardare The Madness. È come se gli autori si fossero seduti in una stanza chiedendosi: “Quali cose fighissime può fare Colman Domingo? Quali battute potrebbe pronunciare? Come possiamo farlo sembrare ancora più stiloso?”. Ed ecco che arriva il risultato: Domingo che si muove come un’ombra, spara battute che fanno schiantare dalle risate (o dall’incredulità), e sfoggia cappotti che definire versatili sarebbe riduttivo.
Pensate che l’uscita della serie coincide col suo 55° compleanno: quale regalo migliore per un attore che ha sicuramente meritato questa vetrina? La serie è proprio un inno alla sua figaggine. Che lo si veda seduto in un motel squallido con una canna in mano o mentre corre per il bosco inseguito dai soliti sgherri, Domingo è sempre perfettamente illuminato e incorniciato. Tom Cruise, fatti da parte: è il momento di Colman!
Una trama che non tiene il passo
Passiamo alla parte dolente: la trama. Non mi si può certo accusare di essere troppo esigente con i thriller, ma The Madness dopo quattro episodi già scricchiola come una vecchia porta. Tutto comincia con Muncie Daniels (Domingo), un ex insegnante diventato opinionista televisivo progressista, che si ritrova in un casotto gigantesco quando assiste a un omicidio brutale in una baita accanto alla sua nei Poconos.
La storia promette bene: c’è il thriller, c’è il complotto, ci sono i suprematisti bianchi, l’FBI, e perfino dei tizi in maschera. Ma alla fine, dove va a parare tutta questa follia? Da nessuna parte. E qui è dove il racconto inizia a perdere colpi: la seconda metà della serie diventa un guazzabuglio di cliché, un po’ come se avessero finito il budget e deciso di riciclare vecchi copioni di CSI. Si parla di complotti, grandi corporation, e male oscuro della società, ma tutto rimane troppo superficiale per lasciare davvero il segno.
Uno stile che non aiuta la sostanza
Stephen Belber, il creatore della serie, ha un background prevalentemente teatrale, e questo si sente eccome. La narrazione è strutturata in modo rudimentale, e manca della complessità che ci si aspetterebbe da un buon thriller. Muncie salta da una pista all’altra con l’approssimazione di chi si è dimenticato di fare i compiti a casa: segue un indizio, arriva a un punto morto, e via di nuovo in un altro luogo. Più che una caccia al colpevole, sembra una gita di piacere mal pianificata.
E non parliamo della gestione delle tempistiche! Philadelphia, New York, i Poconos… Muncie si muove da un posto all’altro come se fosse in possesso del teletrasporto di Star Trek. C’è un certo sentore di bozza incompiuta che aleggia su tutta la serie, come se qualcuno avesse detto: “Non abbiamo tempo di rendere tutto coerente, quindi tanto vale buttare dentro qualche colpo di scena e farla finita”.
Philadelphia: tra autenticità e cliché
Devo dare credito al team della serie per aver rappresentato Philadelphia con una certa autenticità. Si sente che Domingo, da buon Philly guy, ci ha messo del suo: si parla della storia di MOVE, della stratificazione sociale della città, e perfino di alcuni conflitti legati ai quartieri universitari come quelli di Penn e Temple. Anche l’uso del termine “jawn” qua e là per dare autenticità alla parlata locale è apprezzabile.
Ma, ahimè, quando si tratta delle frange estremiste che entrano nella storia, si cade nel prevedibile. La storyline sulla moglie del vicino nei Poconos è un tentativo un po’ maldestro di umanizzare i nazionalisti bianchi. Una scelta che non serve a molto, se non ad allungare la minestra senza aggiungere vero sapore.
The Madness diventa The Blandness
Quando diventa chiaro che il problema non è la paranoia di Muncie né la sua storia familiare legata alla malattia mentale, il passaggio da The Madness a The Blandness è quasi inevitabile. Il finale dovrebbe costringere Muncie a fare delle grandi scelte personali, ma in quel momento il pubblico ha già smesso di crederci. Le rivelazioni finali sul complotto sono una specie di petardo bagnato, e tutto il pathos si dissolve nel nulla.
Personaggi di contorno: luci e ombre
Accanto a Domingo, troviamo un cast di attori veterani che danno un po’ di consistenza alla trama. Stephen McKinley Henderson, nel ruolo del proprietario di un negozio di sigari altamente connesso, è magnifico (e questa è già la sua seconda grande performance su Netflix questo mese!). Anche John Ortiz, nel ruolo dell’agente FBI scettico, fa il suo dovere, così come Deon Cole, il migliore amico di Muncie.
Purtroppo, i personaggi della famiglia di Muncie sono poco sviluppati: il figlio è un fan sfegatato dell’erba, la figlia è quasi una sconosciuta, e la moglie (quasi ex-moglie) sembra più un accessorio che una persona reale. Peccato, perché qualche conflitto familiare ben costruito avrebbe aggiunto la profondità necessaria per rendere questa storia più coinvolgente.
Azione e stile: Colman in Tom Ford
Se c’è una cosa che salva The Madness dal diventare un oggetto completamente dimenticabile, è proprio Colman Domingo. I primi minuti della serie ci mostrano un po’ della sua vita: ama fare lunghe corse e ha una formazione in jiu-jitsu, il che rende il suo passaggio ad action hero quasi credibile. Ma, diciamocelo, la cosa più spettacolare di tutto lo show è quel cappotto versatile che Domingo indossa in ogni occasione. Non importa se deve passare inosservato o infiltrarsi in un club esclusivo: Colman ha sempre l’abito giusto. Anzi, se Netflix non ha messo un link per acquistare il cappotto alla fine di ogni episodio, stanno decisamente perdendo soldi!
Il giudizio finale: vale la pena di vedere The Madness?
Se vi state chiedendo se guardare The Madness, la risposta dipende da quanto amate Colman Domingo. Se siete fan di questo attore straordinario, allora vale la pena vedere come trasforma una sceneggiatura blanda in qualcosa di quasi affascinante. Le sue performance sono esplosive, e vederlo muoversi con quella sicurezza da “baddest mutha” è un piacere. Ma se cercate una storia coinvolgente, un thriller che vi tenga incollati allo schermo dall’inizio alla fine, potreste rimanere delusi.
The Madness inizia bene, con una premessa intrigante e un protagonista carismatico, ma si perde nel mare dei cliché e delle opportunità mancate. Se qualcuno vuole dare a Domingo l’opportunità di sparare, picchiare i cattivi, parlare di disuguaglianza e sfilare in giacca elegante, io sono qui a sostenerlo. Ma spero che, la prossima volta, la storia sia all’altezza del suo talento.
Cosa ne pensate voi? Domingo vi ha convinto oppure, come me, sperate in un thriller più corposo e meno superficiale per la prossima volta? Fatemi sapere nei commenti!
La Recensione
The Madness
Colman Domingo regala una performance esplosiva in The Madness, ma la trama cede ai cliché e perde slancio. Stile da vendere, ma contenuto da migliorare.
PRO
- Colman Domingo regala una performance esplosiva e stilosa
CONTRO
- Trama poco originale e piena di cliché
- Personaggi secondari mal sviluppati
- Finale debole che non lascia il segno