Una serie che insegna
“Alfredino: una storia italiana“, incentrata sull’incidente di Vermicino avvenuto nel 1981 vicino Roma, non pone il centro focale del proprio racconto sul dolore provato dalla famiglia Rampi, come si potrebbe pensare vista la drammaticità della vicenda raccontata. Non presenta scene strazianti e da brividi, il bambino nel pozzo non si vede e non si sente mai, la scena della sua morte – e dell’apprendimento di tale tragica notizia da parte dei genitori – non è portata per le lunghe. È rapida, veloce. Fa capire tutto senza dire troppo.
Ciò su cui la serie si concentra, invece, è il protrarsi di tutti gli eventi sbagliati – causati dalla superficialità, dall’egocentrismo e dall’ignoranza – che hanno inevitabilmente provocato la perdita del piccolo Alfredino. Un insegnamento indiretto, dunque. Un insegnamento da cui l’Italia stessa ha appreso molto, a suo tempo, in quanto è proprio da tale evento che è nata la Protezione Civile, affinché non si verificassero più incurie del genere.
Ed al medesimo tempo, la serie esprime anche un concetto sempiterno, vero allora come oggi, e come sarà sempre: la mania della gente di giudicare, di valutare, di puntare il dito.
Quante ne sono state dette alla madre di Alfredo, Franca Rampi, dopo la morte del bambino: che non ha pianto disperata, che non si è strappata i capelli, e che dunque forse al figlio non teneva poi così tanto, e che voleva solo dare spettacolo. Parole dure, crude, insensibili ed insensate che la vera Franca Rampi si è sentita realmente scagliare contro senza alcun ritegno.
Ed è la Franca della serie – interpretata da una come sempre bravissima Anna Foglietta – a rispondere a queste parole che feriscono più di una lama: “loro mi criticano, mi giudicano per quello che vedono, ma non sanno cosa io ho dentro“. Una frase, un concetto, che significa tanto, ma che molti ancora oggi non capiscono.
La necessità di raccontare
“Alfredino – una storia italiana” è una serie che prima ancora della messa in onda ha attirato critiche e polemiche, tutte incentrate su due concetti principali: è di cattivo gusto l’idea di strumentalizzare una vicenda così drammatica al fine di guadagnare soldi e, similmente, è di cattivo gusto far rivivere a chi c’era, a chi è stato giorni incollato di fronte alla TV nella speranza di vedere uscire Alfredino da quel maledetto pozzo, quei momenti intrisi di dolore dettato dall’empatia.
Ci sono storie, però, che per quanto possano essere tristi e dolorose devono essere raccontate, indipendentemente da tutto.
Sono quelle storie che è importante che tutti conoscano, e che chiunque ricordi, perché rappresentano senza veli la parte più cruda della vita vera, reale, di tutti i giorni e che pertanto, proprio in virtù di ciò, impartiscono lezioni che ognuno di noi dovrebbe apprendere e non dimenticare mai, neanche quando va tutto bene e non ci sono problemi.
“Alfredino” è proprio una di quelle storie, la quale però, oltre ad insegnare, ha anche un ulteriore compito fondamentale da svolgere: far conoscere alle nuove generazioni il piccolo, coraggioso e sfortunato Alfredino Rampi, per tramandarne il ricordo nei tempi futuri, affinché non venga mai perduto.
Perché si sa, il ricordo è l’unico luogo in cui le persone possono vivere per sempre.