Nia DaCosta, Adam Wingard e altri registi del genere horror hanno parlato dell’influenza duratura e dell’ansia scatenata dal fenomeno virale del 1999.
Nel 1994, tre studenti cineasti scomparvero nei boschi vicino a Burkitsville, Maryland, mentre giravano un documentario. Un anno dopo, fu ritrovato il loro filmato.
Questa breve introduzione e la narrazione che seguì catturarono l’attenzione di milioni di persone.
Quando “The Blair Witch Project” uscì nei cinema nell’estate del 1999, il pubblico fu affascinato dal tragico viaggio di tre aspiranti documentaristi: Heather Donahue, Josh Leonard e Mike Williams, alla ricerca della verità dietro un mito locale del Maryland.
L’apparente realismo del genere “found footage” fece credere agli spettatori di assistere a una vera tragedia.
La campagna di marketing, che utilizzava un sito web rudimentale e poster di persone scomparse, contribuì a rafforzare questa illusione.
L’impatto di “The Blair Witch Project” sul genere horror è ancora forte.
La visione di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez ha influenzato molti successi moderni come la serie “Paranormal Activity” e produzioni indie come “V/H/S”.
Anche se i sequel, come “Il libro segreto delle streghe – Blair Witch 2” (2000) e “Blair Witch” (2016), hanno tentato di replicare il successo dell’originale, nessuno è riuscito a eguagliare quella sensazione iniziale.
Quest’anno, a CinemaCon, Blumhouse e Lionsgate hanno annunciato un reboot, nonostante il disappunto del cast originale.
Ne sapremo di più nei prossimi mesi.