La ragazza di Oslo (titolo originale Bortført), è una nuova serie di spionaggio che dura dieci episodi ed è disponibile in esclusiva su Netflix. Si tratta di una delle serie tv più viste in Italia nel momento in cui è stata scritta questa recensione. La ragazza di Oslo è una produzione di matrice nordica, norvegese per l’esattezza. E si vede. Grazie alle strategie di marketing utilizzate in terra nordica, dove la serie è andata in onda in chiaro su TV2 dall’11 aprile al 13 giugno, La ragazza di Oslo è stato uno dei prodotti di punta del panorama televisivo nazionale: “la grande serie della primavera”, recita lo slogan con cui è stata lanciata la serie qualche mese fa, prima di approdare sulla piattaforma di streaming più famosa al mondo, dove il pubblico può divorarla in poco tempo (un giorno il sottoscritto) e poi magari aspettare un sequel previsto sulla carta per due motivi: il cliffhanger finale e il titolo di Netflix che la definisce come una prima stagione e non una miniserie.
La ragazza di Oslo segue Pia (Andrea Berntzen), una giovane ragazza norvegese che, con grande sorpresa dei suoi genitori venuti a casa sua per festeggiare il suo compleanno, si è recata in Israele. Lì, mentre si diverte con gli amici, viene rapita dall’Isis, che per la sua liberazione chiede il rilascio di alcuni prigionieri, uno dei quali è detenuto in Norvegia. La madre di Pia, Alex (Anneke von der Lippe), si reca a Gerusalemme e si rivolge a un vecchio amico con i giusti collegamenti con il governo locale, Arik (Amos Tamam), nella speranza che possa fare qualcosa per accelerare il salvataggio della figlia. Il padre della ragazza, Karl (Anders T. Andersen), viene invece contattato direttamente dall’Isis, e presto emerge che dietro a tutto ci sono ragioni che vanno oltre la semplice trattativa per liberare i prigionieri, su entrambi i lati della barricata.
La ragazza di Oslo mi ha ricordato la serie Homeland per il tema terroristico e per l’uso narrativo di convenzioni come i parenti in pericolo e la conversazione telefonica come fonte di tensione continua. Ma laddove la produzione statunitense cerca di trovare nuovi angoli da esplorare, questa storia proveniente dalla Norvegia si ferma in superficie e diventa presto la fiera dei luoghi comuni, infilati uno dopo l’altro senza soluzione di continuità (anche perché, i singoli episodi non sono particolarmente lunghi, il che rende ancora più allettante la prospettiva del binge watching per chi si imbatte nella serie tramite l’algoritmo di Netflix). Anche l’estetica non convince; il tutto sembra altamente costruito, meccanico. Le esplosioni sono altamente irrealistiche. Il ritmo poi è stranamente accelerato, il che è paradossale visto che la storia è molto compatta ed è stata allungata a dismisura per sfruttare la formula seriale. Forse l’utente medio Netflix non se ne accorgerà, ma se queste sono le condizioni per una nuova partnership tra Netflix e le case di produzione norvegesi, ti consiglio di ripiegare sugli altri titoli già disponibili.
Chiudo la recensione con il commento finale che puoi leggere appena sotto. Fammi sapere attraverso i commenti cosa ne pensi tu.
La Recensione
La ragazza di Oslo
La ragazza di Oslo è una stanca e prevedibile serie di spionaggio/thriller di ispirazione norvegese che parla di terrorismo senza particolari sprazzi di originalità. Dopo il primo episodio traspare la scarsa qualità della produzione. Gli attori norvegesi di questa serie sembrano dei dilettanti. Ho dato 5 e non 3 perché Israele e lo sfondo del conflitto si sono rivelati ottimi scenari per questa serie televisiva.
PRO
- Ti da un punto di vista sul conflitto in Israele
CONTRO
- Recitazioni pessime
- Storia allungata per nulla
- Nulla di nuovo da offrire
Se si deve stroncare una serie, questa va stroncata senza se e senza ma. L’idea della storia era buona, ma poi scivola nel banale e scontato da una parte, nelle impossibili coincidenze dall’altra, e infine in incredibili stereotipi. La protagonista principale, fa solo cose evidentemente stupide e contro intuitive, ma anche le reazioni degli altri sono proporzionate. Se davvero al mondo ci si comportasse così, dovrebbe essere ancora scoperta la ruota. Eppure la storia di base poteva essere buona e solo con una sceneggiatura un pelo più curata si poteva fare un prodotto perlomeno accettabile.