Il 31 ottobre è uscito “Comandante”, l’ultimo film di Pierfrancesco Favino.
Sono pochi i film di guerra italiani che raccontano le gesta dei nostri soldati sparsi per il mondo, ancor meno quelli dedicati ai sommergibili. Eppure, durante lo scorso secolo, queste indomabili bestie di metallo si destreggiarono straordinariamente tra le acque degli oceani, collezionando innumerevoli successi. Per il Regio Esercito il numero di veicoli utilizzati fu di circa centododici; alla fine della guerra se ne salvarono poco più di diciannove. Alla guida di uno di questi, nel lontano 1940, avremmo potuto trovare Salvatore Todaro, un Comandante valoroso ed audace di origini Messinesi. Todaro, in seguito, si trasferì in Veneto, dove costruì la sua vita e si formò come uomo prima che come soldato. Ciò, sine dubio, è da sottolineare poiché l’intera pellicola è focalizzata sull’umanità in battaglia. D’altronde, da un film che inizia con una citazione di un soldato Russo impiegato nelle contemporanee operazioni in Ucraina non ci si poteva aspettare altro.
Inquadramento storico
Todaro, dunque, si vede impiegato subito nelle prime fasi del conflitto. Nel 1940 l’Italia era da non molto entrata in guerra al fianco dei Nazisti, l’Asse stava schiacciando il mondo e di li a poco gli Alleati Europei che avevano fatto da padrone durante l’epocale bellum del 1914-18 sarebbero stati sconfitti. Si badi, in quelle settimane lo sferragliare dei cingoli tedeschi avrebbe svegliato il quieto animo del neutrale Belgio, le Panzer Divisioni avrebbero aggirato la linea Maginot ed i Britannici avrebbero capitolato vertiginosamente per la cosiddetta Blitzkrieg (guerra lampo), rifugiando gli ultimi contingenti nel fazzoletto di terra di Dunkerque (vedi Dunkirk di Christopher Nolan, film uscito nel 2017). Dopo questo piccolo quadro storico, -che vi consente di capire il forte stato di incalcolabile pressione- sarebbe l’ora di passare al film.
Il titolo
Partiamo dal titolo monumentale, esteticamente creato con uno stile da Ventennio (quasi come se si intendesse richiamare i documentari forniti dall’Istituto Luce). “Comandante” è una parola densa di significato, colma di essenze evocative, riconducibile alla sovranità in una gerarchia sociale. Il titolo è “Comandante” e non “Capitano”; nonostante la differenza possa sembrare poca, in realtà c’è: il primo termine indica un incarico, il secondo un grado. L’intento, allora, è quello di estrapolare dal militare anche la figura dell’uomo, consentendo a Favino di esprimere l’estrema drammaticità della guerra con un’intensa passione, con ardore, con il pathos estremo delle illustri opere classiche. Todaro, dunque, viene curato dall’assenza di emozioni dei ruoli dell’arma, dall’indifferenza incurabile alle sofferenze altrui a cui molti militari, per ordini gerarchici, sono costretti ad ammalarsi. È un’epidemia che si diffonde incontrollabile anche nel nostro mondo. In questo modo Todaro non solo riesce ad aumentare la stima dei propri marinai, ma si guadagna anche un posto indiscusso all’apice della catena sociale dell’imbarcazione. Una cosa è impartire degli ordini, un’altra è mostrarsi illuminato e sapiente nei momenti di pressione. Alla fine quanto difficile potrà essere mai salvare un equipaggio di nemici mentre si naviga in un oceano sconosciuto, accerchiato da una flottiglia di avvezze corvette nemiche e di aerei marchiati RAF pronti a tutto pur di abbattere il proprio avversario?
Il racconto è denso di straordinari picchi di epicità. Non stiamo trattando di quell’eroismo becero ed avvilito di Midway, o di quell’incommensurabile dedizione al sacrificio di Desmond Doss di (Hawksaw Ridge), nemmeno di quella carneficina di Salvate il Soldato Ryan. Il film ha una sua dimensione di eroismo, il cui significato è del tutto lontano dalla narrazione ripetitiva delle produzioni Statunitensi. Insomma, siamo stanchi di osservare la guerra con gli occhi di soldati spacconi o di indomabili animi esenti dalla paura tipica della battaglia. Il pubblico Europeo è un pubblico particolare, con una cultura della guerra leggermente diversa da quella a stelle e strisce. Se negli States ancora echeggia il valore della “Patria”, negli Stati Europei è un sentimento che non appare oggi particolarmente diffuso. E questo giustifica la fama di un “All quite on the Western Front“, e tale medesima ragione alimenterà il successo di questa eccezionale pellicola. Insomma, detto alla Friedrich Nietzsche, stiamo assistendo alla “Caduta degli idoli”: la religione (nel film c’è pure una bestemmia) e lo Stato (in un’epoca dove si lotta per l’Italia e dove il Duce è l’incarnazione dello spirito nazionale, non obbedire agli ordini è una chiara forma di ribellione al servilismo demogago). Attenzione però, Todaro non è ne Paul Baumer del film e nemmeno Paul Baumer del libro. Stiamo parlando di due uomini che respirano la vita con una paura identica, ma con spiriti diversi. Alla fine la Prima Guerra Mondiale in trincea è un fatto, la Seconda Guerra Mondiale in acqua è un altro.
Ed è proprio l’acqua il protagonista aggiunto del film. Il mare non è solo un amico, una copertura, ma è anche la morte. Il paradiso e l’inferno si congiungono, indirizzandosi verso un unico elemento. Durante l’intera visione, indubbiamente, ci si può sentire minacciati dal mare, oppure tranquillizzati dal suo andamento adagiato e tranquillo, dalla sua schiuma brumosa; oppure turbati dalla sua densità assassina, la quale stritola le imbarcazioni, le sviscera lasciandole implodere e depositandole, come se bisognasse digerirle dopo il gozzovigliare, tra le croci di corallo immerse sul fondale del mare, sul fondo dello stomaco dell’oscurità aliena dell’oceano. Il mare assume, dunque, una connotazione emblematica. Ma cos’altro? Il mare è un inferno, il mare è il paradiso, il mare è il purgatorio delle anime tribolanti ma non peccatrici assolute. Ciò che il mare dà, il mare toglie e sottrae. È un po’ come la vita ed il suo ciclo. E, pensandoci un po’, è come se quel sottomarino fosse il traghetto di Caronte sull’Acheronte, oppure come la nave del superstite viandante nelle Lyrical Ballads di Samuel Taylor Coleridge (Albatros).
Pierfrancesco Favino e gli altri attori del film
Elogio e gran riconoscimento a Pierfrancesco Favino, il quale si dimostra ancora una volta una pietra miliare del nostro cinema ed una stella nel firmamento internazionale. Certamente verrà insignito con premi molto ambiziosi. Parliamoci chiaramente ed in maniera spicciola: quale altro attore riesce ad incarnare un uomo che biascicare parole in veneto e che continua a pronunciare frasi con l’accento siciliano? E poi, ulteriore aggiunta di stile, le sue sopracciglia corrugate, le sue espressioni intense non lasciano trasparire la plastica essenza della perfezione, bensì il bene non effimero dell’umana recitazione. Insomma, non stiamo parlando più di un professionista comune, ma di uno specialista del settore che ha fatto dei suoi personaggi vita, morte e miracoli. È lui che nel 2002 aveva interpretato il dramma dei superstiti di El Alamein, e sempre lui -in una versione molto migliorata di se- ad esprimere l’asprezza della guerra nella sua semplicità più estrema: l’emozione. Certo, Pierfrancesco Favino ci ha abituati ormai alla geniale pregevolezza dei suoi ruoli (“Il Traditore” è un perfetto esempio della sua supremazia stilistica). Tuttavia, una recitazione così ben riuscita non era per niente scontata. Ciò eleva il l’attore nostrano a quel livello che tutti sognano di toccare ma che, in realtà, solo pochi riescono quantomeno a sfiorare.
Menzione d’onore anche per uno stupendo Massimiliano Rossi, che per l’occasione ha vestito i panni del secondo di Todaro. Bravissimo pure Johannes Wirix, il quale in settimana ha dichiarato di voler ricoprire il ruolo de “Il Piccolo Principe” in una futura pellicola ispirata all’omonimo libro di Antoine de Saint-Exupéry (che tra l’altro è deceduto nella Seconda Guerra Mondiale durante un volo sul suo aereo, il quale venne abbattuto probabilmente da un caccia tedesco).
Azzeccata anche la caratterizzazione dei personaggi secondari, tutti ben definiti e sensati. Ognuno di loro porta con se il fardello della cultura provinciale in cui crebbero. Ciò a dimostrazione del crogiuolo di popoli che lo Stivale custodiva e custodisce. Un’accozzaglia di dialetti, un insieme indefinito di credenze che toccano il paganesimo e la religione. È un inno alle differenze regionali, a quelle minime distinzioni che si assottigliano nei durevoli e longevi anni di asperità. Non c’è da sorprendersi, allora, se ciascuno recita un dialetto differente: Napoletani, Siciliani, Veneti, Toscani hanno tutti origini linguistiche non comuni. Tuttavia, l’animosità dell’Italiano, come nei secoli allora, si dimostra nella sua dedizione al sacrificio, alla diligenza e nel suo amore verso la comunità e all’unico vessillo tricolore che avvolge le bare dei commilitoni abbattuti (cito Petrarca che nel Medioevo scrisse: “vertú contra furore/ prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:/ ché l’antiquo valore/ ne gli italici cor’ non è anchor morto”). D’altronde, come disse Todaro: “Un comandante tedesco non ha, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle”.
Ad attestare l’italianità dell’equipaggio anche diverse scene sul cibo, sulla preparazione dei piatti, sui culinari saperi della penisola ed un simpatico siparietto con i Belgi sulle patatine fritte.
La pietà
Non avendo la possibilità di immergerci ulteriormente nelle complesse dinamiche offerte dal film, sappiate solamente, come se questa fosse un’anticipazione, che la pietà è un altro elemento cruciale dell’intero film. Alla fine, come ricorderà il nostro Comandante, “Siamo homini”.
Riprese ed eccezionali inquadrature
Sotto un aspetto maggiormente tecnico c’è da elogiare il lavoro sorprende svolto per le riprese. Girare un film all’interno del sottomarino rischia di essere un vero problema: bisogna ricreare quella sensazione claustrofobica, far sentire lo spettatore soffocato dall’aria pesante del sommergibile. Dunque, le scene girate all’interno della bestia di metallo sono molto cupe, strette, spettrali nella sua terribile tenebra combattuta da una fioca luce rossa. I volti madidi e pallidi dei commilitoni, tutti appesi al sottile filo del fato. Come se ancora il destino di ognuno fosse scritto… Perché se, ad esempio, nel 1922 nascevi per fare il coralliere, nel 1940 dovevi morire sul fondo dell’oceano per salvare i tuoi compagni.
Anche i filtri sono bilanciati, sempre perfettamente azzeccati. Il montaggio è sempre un buon alternarsi tra le espressioni e le scene di guerra. Ecco, non aspettatevi troppo combattimento. Di lotta ne troverete ben poca. Però credo che nel 2023 non si possa vedere un film solo per la guerra, soprattutto considerando le crisi umanitarie con le quali stiamo convivendo. Concludendo, la battaglia ha una sua essenza, un suo rituale che rimane invariato dai tempi di Achille (c’è un piccolo richiamo all’Iliade nel film), passando ad Alessandro (altro grande Comandante che ha lottato sulle orme del Pelìde) fino a Salvatore Todaro. Ed ancora oggi, son sicuro, che nel mondo c’è ancora qualcuno che apprezza il profumo dell’erba o del mare prima dello scontro sanguinario contro il proprio avversario.
Comandante: Messaggio attuale
Il film condivide un forte senso di unità ed umanità. Ciò, probabilmente, non è riferito solo alla guerra, ma è anche un riferimento ai flussi migratori contemporanei. In mare non si abbandona nessuno.
“Siamo Italiani.”
La Recensione
Comandante
Una narrativa eccezionale accompagna lo spettatore verso l'ignoto. L'eroismo scarno dei film statunitensi viene ribaltato in nome di un'epicità più vera e reale. Il cinema non è un vettore di ideologie, ma è uno strumento per allenare il pensiero. Complimenti sentiti a chiunque perché, veramente, merita davvero parecchio.
PRO
- Storia vera
- Attori
- Durata
- Dialoghi
- Trama
- Riflessivo