La miniserie di Netflix lanciata nel corso del 2019 racconta la vera storia di cinque ragazzi accusati ingiustamente di aver commesso uno stupro. L’accusa li farà finire in carcere per molti anni, facendogli pensare: “È impossibile che sia capitato a me”, un po’ come al risveglio di ogni giorno di questo marzo 2020 alle prese col Coronavirus noi pensiamo: “Sta davvero capitando a noi?”.
La trama
La miniserie statunitense è stata diretta da Ava DuVernay, e racconta il famoso caso della “Jogger di Central Park”, ovvero della ragazza che nella sera del 19 aprile 1989 fu aggredita e stuprata all’interno del parco newyorkese da cinque ragazzi.
I cinque giovani, che effettivamente si trovavano la sera dell’aggressione all’interno del parco, vengono tenuti in stato di fermo e interrogati separatamente.
Antron McCray, Kevin Richardson, Yusef Salaam, Korey Wise e Raymond Santana vengono indotti ad ammettere la loro colpevolezza, con la promessa che se avessero confessato sarebbero stati lasciati liberi di tornare alle loro case.
La necessità della polizia era trovare dei colpevoli e trovarli in fretta: i cinque ragazzi neri erano perfetti come colpevoli per lo scenario pubblico.
Questa condizione, ovviamente illegale, non si verifica e al processo i ragazzi vengono ritenuti colpevoli: quattro di loro finiscono in riformatorio, l’altro ragazzo di 16 anni viene detenuto in carcere.
Nonostante la mancanza di prove concrete, le pene imposte vanno dai 6 ai 13 anni di reclusione.
Solo nel 2012, le condanne dei cinque uomini verranno annullate dal tribunale americano, quando il vero colpevole del reato di stupro nel 2002, assalito probabilmente dai sensi di colpa, si dichiarò colpevole.
I cinque hanno ricevuto un risarcimento di 41 milioni di dollari.
Ai margini della società: i più deboli
Portati in centrale di polizia, i ragazzini sono sottoposti per ore e ore a interrogatori estenuanti senza cibo, acqua e senza i loro genitori o legali.
Stremati, anche alcuni dei genitori e tutori cedono, e chiedono ai loro stessi figli di mentire, lasciandosi convincere a firmare le false dichiarazioni rilasciate.
Infatti, dopo 17 ore di interrogatori, tutti comprendono che non esiste via d’uscita: in un modo o nell’altro. Anche se le prove sono inconsistenti, verranno incastrati.
Intanto fuori si scatena il mondo dei media, con titoli che invocano sicurezza e giustizia o, per meglio dire, vendetta.
In una scena del secondo episodio, i giornalisti assalgono di domande la madre di Yusef: “Signora Salam, che cosa ne pensa di Donald Trump che vorrebbe la pena di morte per suo figlio?”.
Di fronte a simili accuse, nessuna madre può non rimanerne sconvolta.
Ed è sempre, indirettamente, Trump a introdurre il tema del razzismo, affermando come i neri non siano discriminati ma, anzi, avvantaggiati. Ironizzandoci, data l’assurdità dell’affermazione, la sorella della madre di Yusef dice:
A volte ci penso, e mi chiedo: quand’è che i bianchi avranno pari opportunità in questo Paese?
Vengono così ingaggiati cinque avvocati, uno per ogni presunto colpevole: un avvocato divorzista, un avvocato penalista che offre assistenza gratuita, una sorta di attivista che offre assistenza pro bono, un assistente procuratore del Bronx.
Nessuna delle famiglie può permettersi una difesa costosa, ma quello che a loro non manca è la voglia di riscatto e l’orgoglio.
Lotteranno, invano, fino alla fine.
Non smetterà mai di lottare, in estrema solitudine, Korey Wise al quale durante la sua detenzione verrà chiesto più volte all’udienza per la condizionale: “Si sente pronto per assumersi tutte le responsabilità per i crimini per i quali è stato dichiarato colpevole?”. La risposta sarà sempre no. Korey continuerà sempre a dichiararsi innocente.
Nella miniserie di Ava DuVernay non viene messa in scena solo la dura vita in carcere o in riformatorio: anche il dopo, una volta liberi, non prevede sconti per nessuno di loro. Continuano a essere guardati con sospetto e ad essere emarginati.
Il loro riscatto avviene tardi, quando non ci sarà risarcimento da milioni di dollari che valga o che possa cancellare o offuscare le ferite vissute durante gli anni più fragili dell’esistenza.
Guardare o ri-guardare la miniserie ai tempi del Coronavirus
Nel corso di marzo 2020 a tutti, chi prima chi dopo, è capitato di dire o pensare di “essere in carcere”.
Ecco, io credo che questa serie possa esserci di esempio per aprire gli occhi sui problemi che affliggono non solo noi oggi, ma l’intero pianeta.
Siamo tutti colpevoli di occuparci solo del nostro orticello, pensando egoisticamente che i problemi che vanno al di là delle nostre mura domestiche non ci riguardino. Invece ci riguardano eccome.
When then see us offre importanti spunti di riflessione, soprattutto in questo momento così delicato a livello globale.
Ferite vengono inferte intorno a noi quotidianamente, molte volte nemmeno ce ne rendiamo conto.
Questa storia è un invito per tutti a lamentarci di meno ed essere solidali di più.
La Recensione
When they see us
La miniserie When they see us, racconta la storia vera di cinque ragazzi accusati ingiustamente di aver commesso uno stupro. Affronta diversi temi, dal razzismo agli errori della giustizia, sino a giungere al riscatto.
PRO
- Ottime le interpretazioni degli attori, la serie tocca molti temi attuali
CONTRO
- Avrebbero potuto optare per una quinta puntata, approfondendo gli stati d'animo che seguono gli anni del carcere