Ci sono episodi, che seppur lontani tra loro, ritornano prepotenti nella memoria di ognuno di noi. Specie se i tempi in cui viviamo sembrano riproporceli in un loop senza fine.
E’ il caso del dirottamento di Entebbe nel 1976 e della strage di Utoya, nel 2011, che in questi giorni tornano a scuotere gli animi del pubblico della sessantottesima edizione del Festival di Berlino.
“7 days in Entebbe”
E’ del regista Josè Padilla il film fuori concorso a riportarci con taglio prettamente documentaristico, a quel 27 giugno 1976, quando quattro dirottatori sequestrarono il volo Air France partito da Tel Aviv alla volta di Parigi.
Interpretato da Rosamunde Pike e Daniel Brühl, gli addetti ai lavori raccontano di un lavoro didascalico, ma accurato al punto da disturbare, sul dirottamento che riuscì grazie al sostegno del dittatore ugandese Idi Amin.
Da un certo punto in poi si parla di un cambio di registro che dovrebbe portare ad una nuova chiave di lettura della storia.
“Utoya”
E qui arriviamo al tasto davvero dolente, al giorno che ancora tutti ricordiamo: il 22 luglio 2011. Le fonti ci riferiscono di 72 minuti di terrore puro (il lasso di tempo in cui si svolse la sparatoria sull’isola) tant’è che in sala si sono verificati diversi malori.
La storia parte da un documentario sulla città di Oslo per poi passare sull’isola dove l’attenzione si sposta ossessivamente sulla diciannovenne Kaja, in vacanza con la sorellina.
La ricerca, la fuga nella foresta, le grida.Il tutto visto con gli occhi delle vittime. Ad acuire la tensione ci pensa la colonna sonora che altro non è se non il rumore degli spari fuori campo dell’attentatore stesso che non compare mai per l’intera durata del film.
In un periodo di cinema “patinato” (sebbene spesso impegnato), queste due opere sembrano create apposta per scuotere le coscienze e risvegliare la memoria.